Una Repubblica fondata sull'assistenza? Spesa quasi raddoppiata dal 2008

Nel 2021 l'Italia ha destinato a pensioni, sanità e assistenza 517,753 miliardi: la spesa per prestazioni sociali ha assorbito più della metà di quella pubblica totale. Secondo il Decimo Rapporto Itinerari Previdenziali, a gravare sui conti soprattutto le attività assistenziali, che hanno attinto dalla fiscalità generale oltre 144,215 miliardi di euro 

Mara Guarino

Mentre l’andamento della spesa per le prestazioni previdenziali del sistema obbligatorio si mantiene tutto sommato stabile (+3,54 miliardi rispetto al 2020), si conferma sempre più difficile da sostenere per il Paese il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale: dal 2008, quando ammontava a 73 miliardi, l’incremento è stato di oltre 71 miliardi, con un tasso di crescita annuo di oltre il 6%, addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni, comunque sostenute da contributi di scopo. Il tutto mentre, secondo i dati Istat, cresce il numero di persone in povertà e continua ad aggravarsi la tendenza a generare nuovo debito, penalizzando gli investimenti a favore di produttività e sviluppo del Paese. 

È quindi un quadro che richiama l’attenzione sulla necessità di separare previdenza e assistenza, contenendo quest’ultima, quello tracciato dal Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentato quest’oggi a stampa e politica nella prestigiosa cornice offerta dalla Camera dei Deputati. Una sintesi degli andamenti di spesa pensionistica, entrate contributive e saldi nelle differenti gestioni pubbliche e privatizzate, cui si aggiunge un’importante opera di riclassificazione utile sia a tracciare un bilancio del 2021 sia a effettuare previsioni sulla sostenibilità del welfare italiano. 


L’andamento del sistema pensionistico obbligatorio

La spesa pensionistica di natura previdenziale comprensiva delle prestazioni IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti) è stata nel 2021 di  238,271 miliardi contro i 234,736 del 2020: l’incremento è pari all’1,5%, vale a dire 0,4 punti percentuali meno dell’inflazione. In particolare, dopo il crollo imputabile a emergenza sanitaria e misure di lockdowncrescono del 6,58% le entrate contributive, che si attestano a quota 208.264 milioni, valore di poco inferiore a quello registrato nel 2019. Diminuisce di riflesso anche il saldo (negativo) tra entrate e uscite, pari a circa 30,006 miliardi: sul deficit, che scende di quasi 9 miliardi rispetto ai 39,3 del 2020, incide in particolar modo il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici, che evidenzia da sola un passivo di oltre 37 miliardi (erano 33 prima di COVID-19). 

Sono invece 4 le gestioni obbligatorie INPS con saldi positivi, e in recupero rispetto al 2020 anche grazie al progressivo contenimento della pandemia: i lavoratori dipendenti che - al netto delle gestioni speciali poi confluite nel FPLD - presentano un attivo di 11.548 milioni (erano 1.203  l’anno precedente), i commercianti (da 607 a 654 milioni), i lavoratori dello spettacolo ex ENPALS con 288 milioni (erano 150 nel 2020)  e la Gestione Separata dei lavoratori parasubordinati. Con un saldo che passa da 6.819 a 7.700 milioni, quest’ultima risulta indubbiamente favorita dall’istituzione piuttosto recente, avvenuta nel 1996, e dunque dal numero ancora ridotto di pensionati, spesso peraltro percettori di assegni dall’importo contenuto. Con la sola eccezione dell’INPGI, l’ente previdenziale dei giornalisti, bilanci positivi anche per le Casse privatizzate dei liberi professionisti, per un saldo positivo complessivo di 3.692 milioni che beneficia, proprio come i parasubordinati, soprattutto di un buon rapporto attivi/pensionati.

Cala rispetto all’anno pandemico (14,20%) anche l’incidenza della spesa sul PIL, pari al 13,42%. Al netto degli oneri assistenziali per maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo e GIAS dei dipendenti pubblici (23,257 miliardi in totale), l’incidenza scende al 12,11%, dato più che in linea con la media Eurostat; la percentuale cala addirittura all’8,61% escludendo anche i trasferimenti a carico di GIAS e GPT (prevalentemente per le contribuzioni figurative) e le imposte, che per il 2021 valgono poco più di 62 miliardi.

 

L’insostenibile spesa assistenziale italiana 

Nel 2021 risultano in pagamento 4.106.597 trattamenti di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) e ulteriori 7.047.365 prestazioni tipicamente assistenziali (integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali, importo aggiuntivo e quattordicesima mensilità), che appunto integrano una pensione previdenziale. Al netto delle duplicazioni, i pensionati che percepiscono prestazioni totalmente assistite, e di fatto non sostenute da contribuzione, sono  quindi 3.704.275, per un costo totale annuo di 21,728 miliardi, malgrado il calo – fisiologico – delle pensioni di guerra. 

Tabella 1 – Numero delle prestazioni assistenziali e relativo importo annuo  Tabella 1 – Numero delle prestazioni assistenziali e relativo importo annuo
Fonte: Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Sommando i titolari di altre prestazioni assistenziali – sempre al netto delle duplicazioni e non considerando la quattordicesima mensilità – il numero di pensionati totalmente o parzialmente assistiti sale a 6.216.314, cui andrebbero però aggiunte quelle categorie di pensionati che, per età e anzianità contributiva, possono beneficiare anche separatamente di un’ulteriore prestazione assistenziale: si arriva così a  una stima di 7 milioni, vale a dire circa il 44% dei 16.098.748 pensionati totali. «Non sembra rispecchiare le reali condizioni socio-economiche del Paese un dato che vede quasi la metà dei pensionati italiani assistiti, del tutto o in parte dallo Stato. Così come non pare credibile che la maggior parte di queste persone non sia riuscita in 67 anni di vita a versare neppure quei 15/17 anni di contribuzione regolare che avrebbe consentito di raggiungere la pensione minima», ha commentato Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, ricordando appunto che, a differenza delle pensioni finanziate dai contributi sociali, questi trattamenti gravano del tutto sulla fiscalità generale, senza neppure essere soggetti a imposizione fiscale».

In linea con le precedenti edizioni, anche il Decimo Rapporto suggerisce allora una corretta separazione tra previdenza e assistenza: «Innanzitutto c’è un tema di adeguata comunicazione con le istituzioni europee», ha precisato il Prof. Brambilla, rilevando come «dai dati forniti da Istat a Eurostat risulterebbe che l’Italia ha una spesa molto alta rispetto alla media europea, generando l’erronea convinzione che il sistema vada riformato. In realtà, come dimostra la riclassificazione operata dal nostro documento, il vero problema è la scelta dei governi italiani di allocare misure a sostegno delle famiglie o volte a contrastare l’esclusione sociale,a tutti gli effetti spese assistenziali, sotto il capitolo pensioni». Tanto più che, mentre negli ultimi anni le prestazioni previdenziali sono state ridotte da riforme che hanno colto l’obiettivo di stabilizzare la spesa, «quelle assistenziali - rileva Brambilla - continuano ad aumentare anche per l’inefficienza della macchina organizzativa, a lungo priva di una banca dati dell’assistenza e di un’anagrafe centralizzata di lavoratori attivi, varate solo di recente dal governo Draghi, seppur previste da norme del 2004 e del 2015. Eppure, un monitoraggio efficace tra i diversi enti erogatori sarebbe essenziale per aiutare con servizi e strumenti adeguati solo chi ne ha davvero bisogno».


Il “peso” del welfare e i paradossi italiani

Sono tre in particolare i rapporti che danno l’idea dell’incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul PIL, che tocca il 29,16%; quello sul totale delle entrate contributive e fiscali, che vale nel 2021 il 60,36%, e quello sulla spesa totale, che supera il 52%; valore quest’ultimo sì in calo ma solo come conseguenza dell’incremento degli interessi sul debito e dell’incremento della spesa in conto capitale, passata dagli 88,58 miliardi del 2020 ai 106,83 nel 2021. In buona sostanza, al welfare è destinato più di un quarto di quanto si produce o più della metà sia di quanto si incassa sia di quanto si spende in totale. «Siamo davanti a numeri – spiega il Prof. Brambilla – che, trascinati da una quota assistenziale fuori controllo già ben prima dello scoppio della pandemia, contraddicono il sentire comune secondo cui l’Italia spenderebbe meno degli altri Paesi dell’UE per il proprio sistema di protezione sociale. Anzi, spendiamo molto, soprattutto in assistenza, ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata a inefficienti controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa». 

Malgrado un debito pubblico cresciuto di quasi 286 miliardi in soli 2 anni, l’incidenza percentuale della spesa per welfare sul totale della spesa pubblica e in raffronto al PIL colloca il nostro Paese ai vertici delle classifiche non solo europee, ma addirittura mondiali: in UE, l’Italia figura al secondo posto insieme all’Austria (33,3%), subito dopo la Francia (35,2%), mentre tra i grandi Paesi siamo secondi alla sola Germania per spesa sociale in percentuale della spesa pubblica totale. «Un onere assai rilevante se, ad esempio, paragonato ai circa 70 miliardi destinati a scuola, università e ricerca o ai 107 miliardi della spesa in conto capitale – ha sottolineato il Professore – il che dovrebbe far riflettere sia i cittadini, pronti a ogni tornata elettorale a “premiare” le promesse più generose (senza domandarsi chi dovrà poi sostenerle finanziariamente), sia la politica pronta a elargire nuovi sussidi e a scapito delle risorse per aumentare sviluppo e produttività». Con un’ulteriore e paradossale aggravante: più lo Stato spende per aiutare i cittadini e più aumentano i poveri. «Nel 2021 il costo delle attività assistenziali è ammontato a 144,215 miliardi di euro, dato in linea con il 2020 e cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni: erano già oltre 114 nel 2019, prima dello scoppio di COVID-19 e 73 nel 2008. Ci si aspetterebbe – chiarisce Brambilla - per contro quantomeno una riduzione del numero dei poveri e, invece, secondo i dati Istat, i cittadini in povertà assoluta sono più che raddoppiati, passando da 2,11 a 5,6 milioni (4,59 nel 2019), mentre quelli in povertà relativa sono saliti da 6,5 a 8,8 milioni. Se lo Stato fosse una “normale azienda” sarebbero risultati da azzeramento della classe dirigente, ponendo fine a un modello basato sulla distribuzione di sussidi a piè di lista, piuttosto che sull’effettiva presa in carico delle persone in difficoltà». 


Come si finanzia il welfare state italiano? 

Nel 2021 il sistema di protezione sociale italiano è costato per previdenza, sanità e assistenza 517,753 miliardi, con un aumento di 8,25 miliardi (+1,62%) rispetto al 2020. Nel complesso, se per INPS e Inail si può comunque parlare di un sistema in equilibrio, in grado di un sistema pensionistico e assicurativo in grado di autosostenersi con i contributi versati da lavoratori e imprese, lo stesso non può dirsi - oltre che per la spesa assistenziale -  anche per quella sanitaria  (intorno ai 127 miliardi) e per il welfare degli enti locali (poco più di 11 miliardi) che, in assenza di contributi di scopo, devono appunto essere finanziati attraverso la fiscalità generale. Per dare un ordine di grandezza, a partire dai dati indicati nel DEF e nell’indagine annuale di Itinerari Previdenziali sulle dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF riferite al 2020, si può stimare che per finanziare sanità e assistenza, nel 2021, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche parte di quelle indirette. 

Per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono allora che le residue imposte indirette, le altre entrate e soprattutto la strada del “debito”, ponendo peraltro anche un tema di equità e sostenibilità del sistema: il 79,2% degli italiani dichiara redditi da zero fino a 29mila euro, corrispondendo solo il 27,57% di tutta l'IRPEF, un'imposta neppure sufficiente a coprire la spesa per le principali voci di spesa di welfare, il cui finanziamento grava quindi sulle spalle degli altri versanti e, in particolare, di quei 5 milioni di contribuenti (pensionati compresi) che dichiarano redditi oltre i 35mila euro. «Da ormai troppi anni stiamo assistendo – commenta il Professor Brambilla - a una deformazione del sistema previdenziale italiano che, progressivamente e spesso con la mera finalità di ottenere consenso, trasferisce risorse all’assistenza, anziché razionalizzarne la spesa. Emblematici i casi della proposta berlusconiana di innalzamento delle pensioni minime (portare tutti gli assegni bassi a 1.000 euro, come chiede Forza Italia, costerebbe più di 27 miliardi)già rivalutate del 120% e portate a 600 euro dall’ultima Legge di Bilancio, a discapito della rivalutazione delle pensioni oltre 4 volte il minimo, negli ultimi 20 anni costantemente penalizzate: anche il nuovo schema introdotto dal governo Meloni non premia il merito ma danneggia proprio quella fascia di pensionati che più ha versato contributi sociali e imposte dirette». 


Prospettive di breve termine e “soluzioni” per il futuro 

Anche al di là degli scossoni provocati da COVID-19, il documento curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali continua, pertanto, a identificare nell’assistenza il vero tallone d’Achille della spesa per protezione sociale italiana, non mancando di individuare alcuni possibili ambiti di intervento: «Innanzitutto serve agire su serie politiche attive e strumenti di incontro tra domanda e offerta di lavoro, abbandonando la strada delle decontribuzioni che, come insegna la lunga storia italiana, non producono risultati, favorendo incrementi dell’occupazione che si spengono alla fine delle agevolazioni. Meglio semmai, favorire i redditi e abbattere il costo del lavoro, incentivando il welfare aziendale, intervenendo sull’articolo 51 del TUIR sul modello già tracciato dai 600 euro del governo Draghi (e portati poi a 3.000 dal decreto Aiuti quater del ministro Giorgetti) o ricorrendo al credito di imposta, che premia i lavoratori e le imprese dinamiche e non le attività di mera sussistenza e assistite».  

Quanto invece alla previdenza in senso stretto, non pare esserci motivo di dubitare della sostenibilità delle pensioni italiane, a patto che già nel 2023 si riducano le numerose forme di anticipazione pensionistica a favore di una revisione del sistema equa, stabile e soprattutto duratura. «Negli ultimi anni – ha chiosato il Professore - la discussione politica si è concentrata quasi esclusivamente sulle formule per accedere con anticipo al pensionamento. Con il risultato di introdurre sì flessibilità, ma anche di vanificare, tra salvaguardie e meccanismi di anticipo volti a tutelare ora quella e ora l’altra categoria, senza un disegno preciso alle spalle, buona parte di quei risparmi che la riforma Monti-Fornero mirava a ottenere.

È allora giunto il momento di darsi regole certe per almeno i prossimi 10 anni, 1) limitando le anticipazioni a pochi ma efficaci strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà (riportando però l’anticipo a un massimo di 5 anni);  2) bloccando l’anzianità contributiva (da sganciare dall’aspettativa di vita) agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne,  con riduzioni per donne madri e precoci, così come previsto dalla riforma Dini, e superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età; e 3) soprattutto equiparando le regole di pensionamento dei cosiddetti contributivi puri a quelle degli altri lavoratori. Non si possono infatti più trascurare le ingiuste regole che non garantiscono a quanti hanno iniziato a lavorare nel gennaio 1996 né l’integrazione al trattamento minimo, a sua volta da commisurare all’anzianità contributiva, né la possibilità di accedere alla pensione di vecchiaia anticipata in assenza di una rendita pari ad almeno 2,8 l’importo dell’assegno sociale. Stiamo parlando di circa 1.300 euro, davvero difficili da maturare in un contesto lavorativo come quello attuale».

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

18/1/2023

 
 

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