Lavoro, fisco e welfare: brevi note per il governo che verrà

Diversi nodi di carattere economico, sociale e geopolitico attendono i vincitori delle elezioni politiche del prossimo 25 settembre: a cominciare da una Legge di Bilancio da varare in fretta e furia, ecco le sfide decisive da affrontare, in materia di welfare e non solo, per il bene del Paese

Alberto Brambilla

Solitamente al vincitore di una competizione, qualunque essa sia, compete un premio: non sarà così per la coalizione che vincerà le elezioni politiche del prossimo 25 settembre. Vincerà sì, ma l'attende una serie di problemi economici, sociali e geopolitici da far tremare i polsi e che quasi sconsiglierebbero di arrivare primi.

Fatte le elezioni, costituito il governo, nominati ministri e sottosegretari (e saremo già a fine ottobre), toccherà fare subito due cose: la Legge di Bilancio per il 2023 e riprendere di gran carriera il PNRR che, inevitabilmente, subirà rallentamenti tra agosto e ottobre. Il tutto nel bel mezzo di una situazione caratterizzata da un'elevata inflazione, con inevitabile aumento del “carrello della spesa”, anche a causa della situazione climatica e della probabile crisi energetica. Una miscela sociale pericolosa, alimentata sicuramente dai sindacati e da chi avrà perso le elezioni; del resto, siamo noti per non avere una classe politica e sociale che anteponga gli interessi del Paese al proprio tornaconto: il consenso a tutti i costi senza mai pensare chi paga!

Cosa dovrà fare quindi il nuovo governo? Dovrà scrivere una Legge di Bilancio che non lascerà spazio a nessuna manovra, perché le cifre in gioco in pratica sono già tutte assegnate: la prima grossa spesa sarà la rivalutazione dello stock di pensioni in essere, pari a circa 310 miliardi di euro, che riguarderà oltre 16 milioni di pensionati ai quali verrà applicato lo schema di rivalutazione reintrodotto finalmente dal governo Draghi (a partire da Monti, tutti i governi succedutisi negli ultimi anni hanno tagliato drasticamente la rivalutazione delle pensioni, compreso il signor Conte che oggi parla, con Landini, di elemosina ai pensionati: dov’erano i due in questi ultimi 15 anni?). Considerando un’inflazione acquisita a fine luglio pari al 6,4%, è più che probabile una rivalutazione per il 2023 al 7%, che sarà applicata al 100% per le pensioni fino a 4 volte il minimo (2.100 euro circa), al 90% da 4 a 5 volte il minimo (2.100 – 2.600 euro) e al 75% per tutti gli assegni sopra i 2.600 euro. Costo totale 20 miliardi di euro, che rimarranno strutturali anche per i prossimi anni.

A questi occorrerà aggiungere circa 6/7 miliardi per il finanziamento del debito pubblico (anch’essi strutturali per i prossimi anni), considerando da un lato la fine del Quantitative Easing della BCE e dall’altro il fatto che il BTP a 10 anni rendeva a gennaio 2021 lo 0,65%, mentre oggi è intorno al 4% con uno spread - ultimamente dimenticato dalla politica - sui bund tedeschi di circa 250 punti, e con i titoli greci che nel breve termine rendono addirittura meno di quelli italiani. Davvero ci lamentiamo se ci riducono il rating? Infine, occorrerà almeno per i primi 3 o 4 mesi freddi dell’anno proseguire con un minimo di aiuti alle famiglie e alle imprese, sempre che la situazione geopolitica (leggi Cina e Russia) non precipiti, e rifinanziare le missioni all’estero e alcune spese che si trascineranno per parte del 2023.

In sostanza, cari vincitori, vi troverete una “finanziaria” da 32/35 miliardi! Altro che flat tax, pensioni a mille euro al mese (costo 30 miliardi), pensioni da mille euro per 13 mesi alle mamme (altra botta da oltre 10 miliardi), pace fiscale, dote ai diciottenni, ius scholae e amenità varie.

In realtà, una parte della rivalutazione delle pensioni rientrerà sotto forma di IRPEF, soprattutto a carico dei 5 milioni di pensionati (su 16), e in parte come imposte indirette (IVA e accise), ma sono sempre tanti soldi. Poi però vengono i problemi seri: 1) è possibile che su 36,5 milioni di italiani in età da lavoro solo 23 milioni lavorino? In Francia e Germania oltre il 50% della popolazione lavora, da noi meno del 39%; e, infatti, il nostro tasso di occupazione totale è all’ultimo posto, distante 10 punti percentuali dalla media europea (circa 70%) e del 15% dai Paesi del Nord Europa; siamo 12 punti sotto rispetto alla media e 20 sul Nord Europa per occupazione femminile e alla metà della media UE e a un terzo rispetto a quella del Nord UE per l'occupazione giovanile. Siamo primi assoluti in Europa per i NEET, giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione, con 3.047.000 di persone (il 25,1% dei giovani italiani); tra i nostri competitor la Spagna ha il 18%, la Francia il 14%, tutti gli altri Paesi sotto l’11%. 

2) Siamo ai primi posti per spesa assistenziale che, compresi i bonus, vale circa 180 miliardi immessi nel sistema esentasse, “in nero”, il che crea ovviamente altro sommerso. Il punto vero però è che siamo la “fabbrica dei poveri” perché nel 2008 spendevamo 73 miliardi e i poveri assoluti erano 2,1 milioni; oggi spendiamo il doppio e i poveri assoluti sono diventati 5 milioni; e non si trovano camerieri, bagni, cuochi e personale ad alta e media specializzazione. Forse il nuovo doverno dovrà ripensare le politiche assistenziali, tagliare il RdC e i sussidi vari (altro che aumentare la NASpI e la cassa integrazione) e incentivare di più quelli che lavorano anche perché (3), problema nel problema, negli ultimi 30 anni, secondo le analisi OCSE, l’Italia è l’unico Paese che ha avuto una perdita dei salari reali medi stimata nel 2,9%, un abisso rispetto ai Paesi dell’Est Europa dove i salari dei lavoratori dipendenti sono quasi raddoppiati. In Svezia sono aumentati del 63%, in Danimarca del 39%, in Germania del 33%, 32% per la Finlandia, in Francia del 31%, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%. Ma dov’era la politica e il sindacato in questi 30 anni? 

4) Sarà difficile ridurre il fantasioso cuneo fiscale agendo solo sulla defiscalizzazione dei contributi che, se protratta nel tempo, distruggerebbe il sistema pensionistico. Su un monte retributivo dei lavoratori dipendenti di oltre 345 miliardi, uno sconto del 3% di contributi costerebbe 7,7 miliardi l’anno escludendo i nuovi schiavi italiani, cioè quelli che dichiarano dai 35mila euro di reddito in su e pagano oltre il 60% di tutta l’IRPEF (il 50% degli italiani non paga un euro), che di fatto tirano la carretta e che, anche con l’ottimo Governo Draghi, sono stati esclusi da tutti i bonus e le agevolazioni. Anziché pensare alla decontribuzione sarebbe meglio agire sulla contrattazione (vecchia e rituale del secolo scorso), aumentare la quota di retribuzione non soggetta a tasse e contributi portandola stabilmente a 516 euro, introducendo il buono trasporti strutturale da almeno 8 euro al giorno (l'esecutivo di Mario Draghi li ha meritoriamente introdotti con 516 e 60 euro l’anno ma solo per un anno e per redditi fino ai fatidici 35mila euro) e incrementando fino a 12 euro il buono pasto esente: risultato, un incremento strutturale addirittura del 15% per la massa dei redditi fino a 25mila euro.

Ultima nota al nuovo governo: basta con il limite di 35mila euro, premiamo anche loro!

 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

22/8/2022

 
 
 

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