Istruzione, competenze e risorse: quale futuro per la scuola italiana?

Alcune interpretazioni eccessivamente pessimistiche dell'ultimo report OCSE PISA hanno di recente infervorato il dibattito sulle scarse competenze (linguistiche e non solo) degli studenti italiani: al netto di inutili allarmismi, l'indagine obbliga a riflettere su alcuni dei problemi della nostra scuola, a cominciare dalle scarse risorse che le sono destinate 

Mara Guarino

Nelle ultime settimane è tornato acceso il dibattito sul sistema scolastico italiano e sulle (poche) risorse pubbliche che lo Stato destina all’istruzione. Due, in particolare, gli eventi a fare da detonatore: uno di stampo più politico, vale a dire le dimissioni del ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Lorenzo Fioramonti, che ha addotto come principale motivazione proprio lo scarso coraggio con cui sono state trattate scuola e ricerca dall’ultima manovra finanziaria; e l’altro di impronta più mediatica, vale a dire l’enorme eco data dalla stampa ai risultati della rilevazione OCSE PISA 2018, che mette a confronto le competenze in lettura, matematica e scienze di oltre mezzo milione di quindicenni di tutto il mondo, Italia compresa. 

Pur dando il giusto peso a qualche esagerazione mediatica, va subito detto che i dati non sono incoraggianti per quanto neppure così funesti come da qualche parte descritti, come ben evidenzia il confronto con la media OCSE. Se in matematica i quindicenni italiani ottengono un risultato sostanzialmente in linea con la media (487 vs 489) mentre in scienze pagano un gap piuttosto sensibile (468 vs 489), vale in particolare la pena soffermarsi sul rilievo statistico relativo alla lettura, se non altro perché oggetto del maggiore clamore. Nella prova corrispondente, il punteggio medio ottenuto dai nostri studenti è di 476 (487 la media), un livello simile a quello fatto ad esempio registrare da Svizzera, Islanda, Ungheria e Israele e che ci colloca tra il 23° e il 29° posto tra i Paesi OCSE.  Scendendo maggiormente nel dettaglio, circa il 77% degli studenti italiani raggiunge almeno il livello 2, considerato quello minimo di competenza in lettura: anche in questo caso la percentuale italiana è del tutto in linea con la media internazionale. 

Siamo insomma ben lontani da quell’uno studente su 20 in grado di comprendere un testo (erroneamente) riportato da alcuni organi di informazione, anche se dà indubbiamente da riflettere anche il “solo” fatto che 1 studente su 4 circa non abbia maturato competenze minime di analisi e comprensione di un testo nella propria lingua madre. E questo a prescindere dal confronto internazionale che, per quanto utile, alla luce delle diversità linguistiche, culturali, socio-economiche, etc dei diversi Paesi coinvolti nella rilevazione, non può diventare l’unica chiave di lettura dell’indagine.

Lo stesso report ci dice infatti che, in Italia, persiste un notevole divario Nord-Sud: guardando sempre al caso della lettura, ad esempio, gli studenti del Nord sono quelli che ottengono i risultati migliori (498 e 501, rispettivamente per Nord-Ovest e Nord-Est), mentre i loro coetanei del Sud presentano le maggiori difficoltà (con 453, punteggio che scende a 439 per le Isole). O, ancora, ci dice che se, sul breve periodo, le prestazioni degli studenti italiani non hanno subito grossi cambiamenti, ma sono peggiorate sensibilmente rispetto al ciclo del 2000 (-11 punti) e a quello del 2009 (-10 punti): rispetto al 2000, la performance del Nord-Est è diminuita di 26 punti e quella del Nord-Ovest di 19. 

E tanto dovrebbe bastare per fare comunque di OCSE PISA un’occasione per porsi delle domande sullo stato di salute del sistema scolastico italiano. Perché se è vero che, ancora di più davanti a un mondo in rapida evoluzione (basti pensare solo a come le nuove tecnologie e i social network stiano inevitabilmente cambiando il rapporto con lettura, scrittura e informazione anche dei più maturi), sarebbe comunque ingenuo pensare alla scuola come all’unico attore e fattore coinvolto nella crescita cognitiva e culturale dei più giovani, lo è altrettanto che la scuola è e resta il punto di riferimento per eccellenza del loro percorso formativo. 

Tornando anche alle cause scatenanti del dibattito delle ultime settimane, la domanda diventa allora scontata: quanto l’Italia investe a favore di scuola e istruzione? E, ancora, quali sono (ammesso che ci siano) le misure e le risorse in cantiere per colmare le attuali lacune del sistema scolastico italiano? Guardando sempre alle stime OCSE, dati interessanti in tal senso arrivano dall’ultimo rapporto “Education at a Glance”: l’Italia spende circa il 3,6% del suo PIL per l’istruzione dei suoi cittadini (dalla scuola primaria all’università), una quota inferiore alla media OCSE, pari a circa il 5% e tra le più basse in assoluto tra i Paesi dell’area. Un trend confermato anche dall’ultima “Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione” curata dalla Commissione Europea, la quale (con riferimento al 2017) evidenza come gli investimenti dell’Italia non sono solo ridotti, ma anche distribuiti in modo disomogeneo tra i diversi gradi di istruzione

Spesa per grado di istruzione

Fonte:  “Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione”

Insomma, si spende poco, male e… sempre meno. Secondo le previsioni riportate dalla relazione, la quota di PIL destinata all’istruzione dovrebbe infatti dovrebbe diminuire ulteriormente nei prossimi 15 anni, scendendo fino al 3,1% del 2035 (e riflettendo, va comunque precisato, anche il preventivato calo demografico). 

Basteranno per modernizzare l’istruzione e, in particolar modo, quella superiore? Per progettare percorsi formativi che sappiano davvero rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, attenuando i casi di sovra-istruzionemismatching e fuga dei giovani italiani verso l’estero? Per garantire un corpo docente qualificato e aggiornato per tutte le materie e in tutte le regioni, quando invece ancora troppo spesso si registra una carenza di insegnanti in alcuni ambiti e un’offerta eccessiva in altri? Per pianificare misure contro l’abbandono scolastico, urgenti per un Paese cui spetta il poco lodevole primato europeo di NEET? Per mettere mano all’istruzione terziaria che, con il suo 0,3% rispetto al PIL, vanta la spesa più bassa di tutta l’Unione Europea? Per riflettere sul fatto che, nel frattempo, la percentuale di spesa pubblica per l’istruzione destinata alle retribuzioni dei dipendenti (77%) è la più elevata di tutta l’Unione? Per mettere in pratica la raccomandazione in arrivo dal Consiglio dell’Unione di "migliorare i risultati scolastici, anche mediante adeguati investimenti mirati, e promuovere il miglioramento delle competenze, in particolare rafforzando le competenze digitali"

E, più che sui possibili risvolti sensazionalistici dell’ultima indagine del caso, è proprio sulle risposte concrete da fornire a queste domande che dovrebbero concentrarsi opinione pubblica e policy makers. Perché fornire un’istruzione di qualità, equa, inclusiva e ricettiva nei confronti delle trasformazioni epocali in atto significa resta la migliore strategia per contrastare la povertà educativa e per garantire maggiori opportunità professionali e di mobilità socio-economica. Per fare welfare, ben prima che situazioni emergenziali obblighino a intervenire con sussidi o misure di assistenza. E per investire nel Paese stesso e nel suo futuro, valorizzandone quanto più possibile il capitale umano.  

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

27/1/2020

 
 
 

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